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Donne con salamandra
Olio su tela
(1928-30)



Sede legale:
Via Roccaporena 58, 00191 Roma


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Mostra a Roma 
PIRANDELLO con Cézanne al Vittoriano

Dal 4 ottobre al 2 febbraio il Complesso del Vittoriano a Roma ospita la mostra “Cézanne e gli artisti italiani del XX secolo”, a cura di Maria Teresa Benedetti.
Tra i pittori italiani messi a confronto con Paul Cézanne, Fausto Pirandello sarà presente con ben sei opere: “Il bagno” (1934), “Natura morta con le mele” (1940), “Spiaggia affollata” (1940), “Natura morta estiva” (1946), “Bagnanti di schiena” (1955), “Bagnanti nella luce (Bagnanti nella rifrazione)” (1959).

bagnanti_di_schiena_10_1955

Bagnanti di schiena
(1955 circa)
Olio su cartone

A rappresentare il profondo e  durevole legame che stringe Fausto Pirandello a Cézanne sono state convocate al Vittoriano ben sei opere del pittore romano: un numero che ne affianca la presenza a quella di Morandi e Carrà, egualmente presentati in mostra con un così largo numero di opere. Fra quelle di Pirandello, da segnalare, oltre al “Bagno”, del 1934, esposto la prima volta l’anno successivo alla seconda Quadriennale, ove suscitò un largo clamore attorno alla figura del suo autore, la “Spiaggia  affollata” del 1940, una delle opere pirandelliane più tipiche dei dolorosi ed esacerbati anni della guerra, e due dipinti di “Bagnanti” del tempo maturo e tardo, in cui Pirandello ripensa la forma della lezione di Cézanne.
Il catalogo Skira, come la mostra a cura di Maria Teresa Benedetti, include un saggio di Fabrizio D’Amico dedicato in particolare alla “lunga devozione” serbata da Pirandello verso il grande maestro francese.

 

Fausto Pirandello e Paul Cézanne: momenti di una lunga devozione.

Testo di  Fabrizio D’Amico

Nella vita non breve, Fausto Pirandello ha traversato almeno quattro stagioni ideative, dopo quella d’esordio. La prima, segnata dagli anni trascorsi a Parigi tra ’28 e ’30, nei quali trovò la sua maturità. Quella immediatamente seguente che, sulla metà degli anni Trenta, lo vide protagonista – anche se, come poi sempre, appartato – della scuola romana, e in particolare della sua identità bontempelliana, prima che un nuovo empito realista (condiviso tra gli altri con Virgilio Guzzi e Renato Guttuso) lo sospingesse oltre la attonita, magica sospensione trovata nel tono. Quella del dopoguerra, poi, con le nuove preoccupazioni formaliste, che lo avvicinarono infine all’“astratto-concreto” di Lionello Ventuuri. Quella, in ultimo, dell’età più tarda, nella quale egli recuperava l’asprezza espressionista che aveva aleggiato su tanti suoi anni, coniugandola con l’esperienza da lui tentata a fianco delle istanze non figurative degli anni Cinquanta.

   In ognuno di questi periodi, Pirandello ha serbato una costante devozione a colui che lucidamente ritenne esser stato il vero fondatore della strada moderna della pittura: Cézanne. Una devozione intera, precocemente attestata, e da allora in avanti radicata nel profondo del suo immaginario: una devozione cui Pirandello deve in larga misura l’unitarietà della sua visione, che altri anni credettero di poter identificare in un materismo sofferto e dilaniato, e che risiede invece in quel doppio binario che la sua pittura seppe scorgere, e svelare, nella realtà. Di cui imparò a denudare impietosamente i gangli nascosti – da un lato. E dall’altro a scoprirne la duplice verità, annidata al fondo dell’animo e della conoscenza dell’uomo. In ciò, Pirandello ebbe due fari, che ne illuminarono la via: il padre Luigi (di cui seppe peraltro presto trascurare i poco felici orientamenti pittorici che da Luigi stesso gli venivano proposti, e che lo spingevano a seguire l’esempio offertogli da Camillo Innocenti, o da Armando Spadini; e intenderne invece la folgorante modernità del pensiero); e – appunto – Cézanne. 

   Nulla documenta che Fausto ne abbia visto l’opera alla Biennale veneziana del 1920 (a quella data, d’altronde, i suoi pensieri non erano ancora rivolti interamente alla pittura); con il grande francese (allora peraltro, come è ben noto, spacciato sovente per italiano d’origine, e impunemente, nella esegesi nostrana del tempo, chiamato “Paolo”)  il primo decisivo incontro si data  al 1928, quando –  per fuggire Roma, il suo ambiente troppo raccolto, le pesanti eredità che vi aleggiavano, e probabilmente la presenza stessa del padre – si recò con la moglie Pompilia, cui s’era unito nascondendo alla famiglia quella sua scelta di vita, a Parigi. Dove avrebbe avuto il primo figlio, dove sarebbe divenuto uomo, e dove avrebbe trovato una sua prima, e già splendida, maturità.

   Non s’è a tutt’oggi valutato appieno lo strappo che Parigi gli consentì: quasi d’improvviso, egli vi abbandonò il colore fiammante dei suoi inizi (quello che ancora saturava le figure affastellate una sull’altra in un singolare horror vacui che abitavano tra gli altri il dipinto inviato alla prima Biennale cui partecipò, la Composizione [Paesaggio siciliano] del 1925-‘26), debitore d’una conoscenza – certo parziale: esperita direttamente forse alla terza Biennale romana del’25, o fors’anche già alla Biennale veneziana del ‘22 –  del fauvismo annidato in taluni maestri della Brücke, Kirchner e Pechstein su tutti.

   A Parigi, il quadro di grande impegno cui subito lavora, e a cui evidentemente delega una sorta di auto-presentazione nel nuovo ambiente, la Composizione firmata e datata 1928 (probabilmente intrapreso poco prima di porre mano alla lunga serie di nature morte materiche che esporrà a breve nella piccola Galerie Vildrac) è ancora una ricapitolazione dei molti talenti che Fausto sa adesso di stringere in mano: una sorta di summa delle conoscenze acquisite, dove memorie di Picasso, De Chirico e Carrà stanno assieme alle spalle della tela, un po’ dandosi di gomito per sovraffollamento di citazioni. La Composizione resta comunque uno dei quadri capitali fra quelli certamente dipinti a Parigi: il sapore del dipinto è in realtà prevalentemente di radice dechirichiana (come attestano lo spaesamento della narrazione, il tema del viaggio accennato dalle vele sul mare o dal faro, e gli oggetti incongruamente affastellati sulla destra), al pari di quello di alcuni fogli a pastello egualmente databili al ’28. Ancora qui, in particolare, non v’è traccia del surrealismo, che costituiva allora a Parigi l’ultima parola della modernità, e del quale Pirandello non tarderà a prendere atto: assumendone le forme in maniera stringente in molti disegni che paiono discendere in egual misura da Savinio e da Magritte (forme di cui ricorderà, al ritorno in Italia, i sogni più avventurati in un dipinto, purtroppo oggi perduto, come Donne in una stanza), o tramandone le suggestioni con quelle di Picasso e del cubismo nelle Donne con salamandra, ove il realismo quasi fotografico della donna inquadrata dalla cornice (non altri che la moglie Pompilia, sua modella abituale) si sposa all’invenzione della metà inferiore del corpo, persa chissà dove nel folle spazio che contiene le due figure: una delle prime ‘favole’ avvolte dal mistero concepite da Fausto, poco prima di quell’Interno di mattina che – per tanti versi affine a La salamandra – è probabilmente il primo grande quadro cui egli pose mano al rientro in Italia, sul finire del 1930. 

  Poco dopo aver terminato la Composizione, Pirandello ebbe occasione di allestire la sua prima personale a Parigi (la prima in assoluto che gli toccò, d’altronde, visto che in Italia, dopo le partecipazioni alla III Biennale Romana e l’invito – ricevuto “senza la minima raccomandazione” come gli ricordava il padre poco dopo, cercando di sollecitarne l’orgoglio, allora come poi sempre da lui sopito sotto una pesante coltre di disistima e di dubbio verso sé stesso –  alla Biennale di Venezia del ’26, non aveva quasi più esposto), alla Galerie Vildrac di rue de Seine, dal 9 al 23 marzo del 1929. Fra altre “peintures et dessins”, Pirandello vi espose un gruppo importante e stilisticamente coeso di nature morte: a testimonianza del fatto che, nell’anno trascorso sino ad allora nella capitale francese, questo soggetto avesse occupato una parte importante, e forse la maggiore, dei suoi pensieri.

   Da questa concentrazione sul tema uscì una serie formidabile di piccole tavole, che le scarne e per lo più incomprensive recensioni dell’epoca mostrano di non intendere nel portato forte di novità linguistica che formulavano (“amusements”, divertimenti, furono dette; “un trompe-l’oeil à rebours. Chacun sa vérité”, scrissero, citando a sproposito Luigi e il suo teatro, già affermatissimo in Francia, ma che, in quelle nature morte, non entrava proprio per nulla), e che le trascinava lontano sia dai più algidi e perfetti modelli braquiani sia, a maggior ragione, da quelli che aveva lasciato in Italia.

   Non s’avvidero in particolare, i recensori d’allora, che l’accademia cubista, ormai vulgata corrente, era da Pirandello superata d’un balzo, e scavalcata all’indietro verso il malessere inconciliabile di Cézanne: col suo dibattersi fra l’obbligo alla superficie e il duro resistere che faceva l’oggetto – il suo corpo, il suo ingombro – all’interno del quadro, ove le due istanze conflagravano. Nel corpo erto e disagiato della materia s’accampa un colore appena variato, che sempre si stringe attorno a una dominante: sovente un’ocra, affocata o più spenta; ovvero il grigio. Un colore come ulcerato, che dal suo luogo d’origine divarica brevemente verso un rosso bruciato, o verso un bianco impuro, che ha ancora il sentore della calce. Un pallido azzurro, al centro o al margine della composizione, è l’unica, breve dissonanza spesso inframmessa nel concerto tonale del colore.

   Lo spazio occupato dai pochi oggetti si riduce ad una forra turbata e angusta. Visto quasi sempre dall’alto (secondo un modo che lo tratterrà a lungo, e che in molte occasioni, nel corso degli anni Trenta, avvicinerà le sue nature morte a quelle coeve di de Pisis), esso è privo d’un ideale filo d’orizzonte che normalizzi l’immagine, stabilizzandola: così ch’essa incombe sul primissimo piano, concretandovi una sorta di disordine trepido, ansioso. Così avviene tra l’altro nella Natura morta con ventaglio, ne Le molle, ne I tondi, ne Le bottigliette.

   Non dunque mimesi generica o vaga memoria della scultura (che era stata la primissima vocazione di Fausto a Roma); ma – in quei grumi e in quella densità di materia che s’alzano in spessori che la pittura europea non avrebbe poi conosciuto prima dell’informale – la lotta in atto fra quella che Pirandello intese definitivamente a Parigi come la via moderna della pittura (il vincolo cézanniano alla superficie) e l’intuizione, che già prima aveva avuto e che resisteva adesso in quelle nuovissime nature morte ‘a pasta alta’, costruite con la spatola invece che col pennello, di una pittura che non sapeva prescindere dal confronto con la realtà. Un confronto da cui s’usciva come sdoppiati: in ciascuna d’esse, la materia vi è gremita e densa, e in taluni punti rilevata al punto da mimare la fisicità dell’oggetto. Ma lo spazio che le accoglie è poi come innaturalmente compresso; l’orizzonte è escluso dal punto di vista bruscamente rialzato, che piomba a capofitto sull’assise degli oggetti, stretti l’un l’altro come a difesa. D’un vero e proprio ‘piano di posa’ – di quell’ordinata linea mediana fra primo piano e fondo che normalizza la visione nella tradizionale ‘natura morta’ romana, ed italiana, d’anni Venti – non c’è più traccia, né memoria: e solo, a dare un grano di plausibilità allo spazio che ospiterà l’immagine, stanno, a un margine delle tavolette e con funzione prospettica, le sottili sconnessioni dell’impiantito.

    “C’est Picasso et Derain qui sont mes mâitres parmi les peintres contemporains. J’admire beaucoup aussi Braque et mon compatriote Chérico”. È dell’ottobre del ’28 – quando dunque era a Parigi da pochi mesi – questa dichiarazione che Fausto Pirandello rilascia ad un giornalista che lo interroga sui progenitori che il giovane italiano si riconosce. La grande triade del primo cubismo, e Giorgio de Chirico. Con l’esclusione dunque – significativa – di Carrà (ancora presente, s’è detto, nel variegato asse paradigmatico che alimenta la Composizione del ’28), e degli “italiens de Paris”, al cui schieramento, pure, gli avrebbe giovato far riferimento. È che fin d’ora Pirandello vuol darsi e riconoscersi radici più antiche: né gli si confà il timbro di voce di Waldemar George, e il suo retorico proporre il gruppo che patrocina come unico reintegratore e inteprete di italiche purezze.     

   “…parmi les peintres contemporaines”, dunque, egli attesta di guardare a coloro che più esplicitamente muovono dalla spazialità franta di Cézanne, di cui ha compreso il solco profondo che essa ha tracciato nella tradizione moderna. Ed è Picasso che soprattutto ne suggestiona ora il modo: forse il Picasso rosa del tempo che antecede il cubismo, e certamente il Picasso mediterraneo degli anni Venti. Ad esso rinvia un coeso gruppo di opere, tutte di ridotte dimensioni, distese fra ’28 e ’31, negli anni dunque di Parigi e in quello che immediatamente seguì il ritorno in Italia. Sono, già, Bagnanti – come poi tanto frequentemente – che fanno assise su spiagge altrimenti deserte; inamene, angolose figure, senza sorriso e senza lacrime, che non ostentano più, ormai, nessuna delle alterigie del soggetto transitato in tanti secoli della pittura. Adesso, ecco messa in figura “la vita a cui bisognerebbe dar forma. Questa attuale. Che nudi? Che neoclassicismo? Dove, le bagnanti? […] Ho pensato agli antichi: essi hanno sempre riprodotto la vita attuale e la favola eterna. Mettere questa favola eterna sotto le vesti moderne, nella vita moderna. Così può nascere il quadro”. È un appunto, folgorante come sempre lo sono i suoi scritti (e che grande scrittore fu, anche, Fausto!), non datato, ma che deve risalire al primo tempo di Parigi. E quel “neoclassicismo” che rifugge come ormai inutile orpello, Pirandello lo scambiò allora (nelle sue piccole Bagnanti, e identicamente nel Ritratto di donna del ’29, e nella Madre e il figlio dell’Istituto di Studi Pirandelliani di Roma, tra l’altro e ad esempio) con la spoglia, petrosa classicità di Picasso: di un Picasso che, dopo il cubismo, ripensava un’altra parte di Cézanne.

   A partire dal suo rientro in Italia nel 1930, e sino al declinare del decennio, vengono i dipinti grazie ai quali Pirandello giunge a qualificarsi – quasi suo malgrado – come il maestro della scuola romana più influente, dopo la morte di Scipione, assieme a Mafai e Capogrossi. In nessuno d’essi – da La scala a Il bagno, da Gioventù a Palestra – la lezione di Cézanne, e del cubismo che ne era disceso, è limpidamente avvertita come cruciale; all’opposto, anzi, la singolare monumentalità delle figure, il loro anomalo gestire in uno spazio battuto dall’assurdo e dall’implausibilità sembrarono alla critica, che non poteva da un canto fare a meno di riconoscere in quei dipinti la grande maturità d’un pittore, solo inciampi e ristagni di un talento cui si riconoscevano in primo luogo, o unicamente, i talenti di una ricca tavolozza manciniana, e dunque aspramente realista. “Divertimenti, variazioni ed esercizi” erano soltanto – secondo Ojetti, ma egualmente per tanti altri – quel malessere, quell’amarezza di Pirandello, e quella sua urgenza a dire una realtà quotidiana e spoglia, denudata di ogni retorica, che il pittore metteva in figura nelle torpide atmosfere della Scala, del Bagno. 

   O, già da qualche tempo avanti, in quel dipinto che è forse il primo a inaugurare quelle sue storie sospese fra allucinazione, simbolo, rito: Il remo e la pala, che Pirandello presentò a Milano nel 1933, in una mostra alla Galleria di Milano su cui dovette fare molto affidamento. In quel dipinto Fausto – se, come mi pare, egli ha inteso raffigurarsi nel giovane che appoggia il braccio sulla figura del vecchio (Luigi?) che gli è accanto – guarda intento la donna (la Verità) che, un piede oltre e uno al di qua della panca che taglia in due metà lo spazio, sembra protendersi verso l’uomo a sinistra (un robusto marinaio, in cui è forse rappresentata la Vita), ma facendo cenno nel contempo con l’altra mano al luogo donde essa proviene (l’unione fra padre e figlio, a simboleggiare il Dubbio). “La vita, o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola”, aveva detto Luigi: e su questa antinomia – così fondante per il pensiero pirandelliano; e che è qui simbolicamente rappresentata attorno alla figura della donna incerta fra due destini – pare ora riflettere Fausto, che certo in questi suoi primi anni definitivamente maturi pensa ancora alla ‘doppia verità’ del padre come ad una fonte per lui cruciale di poetica.

   È questo il tempo – destinato a chiudersi presto, con la morte di Luigi (dicembre 1936) e con l’avvicinarsi del clima bellico, che finirà per spingere Pirandello verso un recupero dell’espressionismo degli esordi – in cui all’egida formale del cézannismo si affianca, con analoga capacità di orientarne l’immagine, l’influenza del pensiero del padre. La guerra, poi, ne indirizzerà altrimenti le opzioni. E sarà solo con il 1948, con il definitivo indirizzarsi del ‘nuovo realismo’ verso una collusione con la politica che non era nelle sue corde, che in Pirandello rinascerà una preoccupazione formalista. Torna allora a condurlo, egemone, il ricordo dell’antica lezione cubista appresa a Parigi. E una serie di felici ‘nature morte’, che ripensano ora soprattutto Braque, si susseguono a scandire quell’anno. 

   Dalle ceneri del “Fronte Nuovo delle Arti”, come è noto, nasce la voglia di una nuova compagine, degli “Otto pittori italiani”, che Lionello Venturi – chiamato a patrocinarla – orienta sull’assunzione della radice cézanniana di quella che è ormai una storicizzata tradizione moderna. La pittura di Pirandello sembra allora prossima a quella di molti protagonisti del nuovo gruppo, e d’altra parte egli è ora vicino a Venturi, che ne scriverà con convinta adesione. Risiede probabilmente nel carattere appartato di Fausto, (oltre che nel breve ma decisivo scarto d’età che fece sì ch’egli apparisse a Birolli, a Corpora, ad Afro, un ‘maestro’ d’un passato pur prossimo, piuttosto che un possibile compagno di strada) la ragione della sua mancata adesione a quel movimento i cui propositi gli erano peraltro così vicini, e consentanei. Nonostante quella distanza serbata – quasi a garantirne ancora una volta, forse malgré lui, l’arduo statuto di grande isolato – Pirandello registrò allora, e per tutti gli anni Cinquanta, la sua volontà espressiva attorno a quelle memorie cézanniane e proto-cubiste che aveva, quasi unico in Italia in una tal misura, assunto a fondamento della sua pittura sin dalla fine degli anni Venti.

 

 

 

 

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