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Donne con salamandra
Olio su tela
(1928-30)



Sede legale:
Via Roccaporena 58, 00191 Roma


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Mostra a Forlì 
Novecento. Arte e vita in Italia fra le due guerre

 Fabrizio d’Amico.

“La Repubblica”, 31 gennaio 2013, pp. 47-49.

Non era impresa facile per la mostra ordinata quest’anno, a cura di Fernando Mazzocca, ai Musei San Domenico di Forlì (che segue la grande antologica di Adolfo Wildt dell’anno scorso, qui stesso promossa sempre dal Comune e dalla locale Fondazione Cassa dei Risparmi) dare un’immagine a “Novecento. Arte e vita in Italia fra le due guerre” che fosse memore delle grandi esposizioni sul medesimo tema che negli ultimi decenni l’hanno preceduta (e ricordiamo soltanto, fra le maggiori, “Realismo magico” alla Galleria dello Scudo di Verona, “L’idea del classico”. 1916-1932” del Pac di Milano, e “Il Novecento milanese.

Da Sironi a Martini” allo Spazio Oberdan egualmente di Milano) senza risultarne ripetitiva. Scommessa che Forlì, oggi, può dire d’aver vinto, per una serie di motivi: per il rilievo e la completezza dei prestiti di cui si giova, certo; ma forse in particolar modo per l’amplissimo spazio concesso a quelle che eravamo abituati a chiamare “arti minori”, e che tali ovviamente non sono: ché, anzi, esse risultano sovente, nel ventennio del Fascismo, trainare nuove idee e ipotesi formali che soltanto in seguito saranno appannaggio delle arti maggiori. E per la documentazione inusitatamente larga che la mostra (specificamente nella sezione “Arte pubblica. I grandi cantieri tra monumentalismo e razionalismo”) offre del “Fascismo di pietra”, nel quale – scrive oggi Antonio Paolucci nel catalogo Silvana – il regime “ha dato il meglio di sé”.
Infine anche perché, negli anni trascorsi dalle mostre che si sono più sopra ricordate, qualcosa è cambiato nella prospettiva che abbiamo di quel tempo: all’interno del quale occorre ormai riconoscere uno iato, davvero cruciale, che si distende fra la ‘finis avanguardiae’ – la fine delle smisurate speranze sull’intelligenza dell’uomo che animarono quelle avanguardie storiche, nelle quali domina l’ansia della ricerca, il miraggio del nuovo, la voluttà del passo dato oltre ogni frontiera conosciuta – e il cosiddetto “richiamo all’ordine” in cui più o meno tutta l’Europa si trovò invischiata a muovere dalla seconda metà degli anni Venti. Quel lasso di tempo cioè, che occupò nella vicenda delle arti l’intero secondo decennio del secolo e l’avvio del terzo (avendo già dato qualche avviso di sé nel corso del primo decennio, quando, alla morte di Cézanne nel 1906, la sua eredità fu raccolta insieme dal primo cubismo e da chi – quasi immediatamente – lo scopriva ‘costruttore’ di una nuovamente salda architettura di forme, e paradigma di una sovrastorica classicità). Un tempo che comprese dunque, e scavalcò, la guerra; e durante il quale sbocciarono contemporaneamente l’ultima e più radicale delle avanguardie, il Dada, e quella tensione a un recupero del classico che avrebbe posto le premesse al venturo ritorno all’ordine (“Le retour à l’ordre’ di Jean Cocteau, sorta di geniale e involontario ‘manifesto’ di quel clima, uscì in volume a Parigi nel ’26).
Infiniti furono allora, già prima che la Grande Guerra sconvolgesse il continente, gli avvisi del diffuso bisogno di nuova quiete, di nuova “eternità” (opposta all’attimo fuggente del ‘plein air’ che era stato il dogma dell’impressionismo, individuato ora come motore primo di ogni sovversione), che si tradusse in pittura in un reingresso del dominio del disegno, della grande pausa ‘architettonica’ nella costruzione dello spazio del dipinto, e di una gerarchia dei generi che rimetteva al posto d’onore la rappresentazione della figura umana. Finché, negli anni della guerra, non furono proprio alcuni dei protagonisti delle avanguardie a rendersi interpreti di quell’esigenza: da Picasso a Derain, da Boccioni a Carrà, da Severini a De Chirico. Nelle loro mani, quel vagheggiamento d’una misura classica (peraltro molto diversamente intesa: dal giottismo di Carrà alla sezione aurea di Severini, ad esempio) non comportò peraltro un rifiuto della modernità in nome d’una semplice restaurazione della tradizione. Ed è quanto appunto fa sostanzialmente diversi i due tempi del ritorno all’ordine: prescindendo da chi, come ad esempio Severini o Picasso, visse quel “ritorno” come transito soltanto momentaneo, il Carrà del ’16 è – sempre ad esempio – abissalmente lontano da quello di dieci anni dopo, e il Savinio che su “Valori Plastici”, a partire dal 1918, espresse il bisogno d’una classicità implicata con il moderno è agli antipodi da Papini od Ojetti, che vagheggiavano il ritorno a un Museo d’intangibile immobilità.
Di tutto ciò narra la mostra di oggi, che s’apre splendidamente sulla ‘Maternità’ di Severini del 1916, antesignana d’ogni ‘ritorno’ della nostra pittura alla purezza della linea toscana quattrocentesca, e prosegue di capolavoro in capolavoro: fra i quali, celeberrimi, ricordiamo la ‘Sala d’Apollo’ di De Chirico, la ‘Silvana Cenni’ di Casorati, la ‘Madre che si leva’ di Guidi, l’‘Architetto’ di Sironi, la ‘Terra’ di Funi, ‘La giovane sposa’ di Oppi, ‘La quiete’ di Carena. Tutti dei primi anni Venti, in ognuno d’essi corre una densa memoria del museo: di Botticelli e Raffaello, di Andrea del Sarto o Bronzino, di Tiziano o Caravaggio; ma non senza che in ognuno d’essi si insinui come un germe di sospetto verso quelle secolari devozioni: e non senza che un seme eterodosso, tolto dalla vicenda e dalla speculazione moderna, le inquini. Così un sentore di quella che è stata la Metafisica, di cui pare rammentarsi soprattutto la luce gelida e straniante, pervade altri mirabili dipinti: dal ‘Tram’ di Guidi alla ‘Visione prismatica’ di Ferrazzi al ‘Carnevale’ di Donghi: nei quali par risuonare già la voce di Massimo Bontempelli e del “realismo magico” italiano: “Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta”.
Più rare, ma anch’esse documentate dalla mostra, le parole diverse, ancora legate – sembrerebbe – a un’idea d’avanguardia: fra esse – più che gli esempi numerosi di secondo futurismo (di Balla, Dottori, Depero, Crali …) – sono da ricordare il misterioso, notturno ‘Pescatore’ di Ferrazzi, e le più tarde ‘Bagnanti’ (‘Composizione’) di Pirandello. Con l’inoltrarsi nel quarto decennio del secolo, la qualità della pittura oggi indagata si fa più rara, mentre s’incrementa il peso di un’arte sovente contenta di cantare le imprese del regime. Ne è un esempio tra molti l’‘Ordine di adunata’ di Contardo Barbieri, pittore caro al Regime; ma una drastica involuzione tocca adesso anche l’opera di Sironi, e soprattutto di Carrà. Parimenti, la scultura italiana d’anni Trenta aggrava quelle tare che Arturo Martini (del quale sono oggi in mostra molte opere notevoli, fra le quali il ‘Tito Livio’) non è riuscito a sgombrare. Era iniziato, per la nostra scultura, quel tempo “lungo e controverso” che, come scrisse Mario Quesada, durò almeno fino al dopoguerra.

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