Informazioni


Donne con salamandra
Olio su tela
(1928-30)



Sede legale:
Via Roccaporena 58, 00191 Roma


Altre informazioni

FAUSTO PIRANDELLO: Il tempo della guerra (1939 – 1945). 
Agrigento Fabbriche Chiaramontane
23 novembre 2013 – 23 febbraio 2014

pirandello-Agrigento.ritgl. con didasc

Dal 23 novembre  al 23 febbraio, le Fabbriche Chiaramontane di Agrigento propongono una precisa monografica su “Fausto Pirandello.  Il tempo della guerra (1939 – 1945)“.   La  mostra, curata da Fabrizio D’Amico e Paola Bonani, è promossa dalle  Fabbriche Chiaramontane  e  realizzata con il contributo dell’ AFP – Associazioneo  Fausto Pirandello.
A documentare per la prima volta in modo puntuale,  uno degli snodi personali e artistici, oggettivamente tra i più rilevanti dell’artista,  saranno  una sessantina di opere.
Una trentina  di dipinti provenienti da istituzioni e musei pubblici e da gelose collezioni private,  in particolare romane e siciliane  e  altrettante opere su carta (sanguigne, pastelli, acquarelli) per lo più inedite, provenienti dalla  collezione degli eredi di  Antonio Pirandello.

Testo di  Fabrizio  D’Amico
All’indomani della morte del padre (1936),  si chiude il periodo più interrogante e sospeso di Pirandello,  influenzato insieme dall’arte etrusca,  dalla metafisica dechirichiana,  dall’esempio di Picasso e di Braque e dal surrealismo  – avvicinati questi ultimi nei tardi anni Venti trascorsi dall’artista a Parigi – .  E si apre un tempo coeso,  caratterizzato dal senso di un oscuro dolore e da una intensa drammaticità :   tempo nel quale l’immagine accede ad un dilacerato espressionismo, che si pone in sintonìa con le punte più avanzate della coeva ricerca romana (di Mafai e del giovane Guttuso),  quasi avvertendo in anticipo il dramma della guerra.

Questa mostra riconferma come  Fausto Pirandello sia stato uno dei maggiori pittori italiani del secolo.   Tale viene finalmente riconosciuto ora anche in Europa  e in Francia in particolare, dove ha ricevuto  un’ennesima consacrazione nella mostra  “Les Réalismes”  di Pontus Hulten  e  Jean Clair.

 Fausto Pirandello (1899 -1975) emerge come autore votato  ad un’aspra visione della realtà e insieme ad un sogno capace di trasfigurarla, trasportandola in una dimensione ove albergano il rito,  il mito, l’allucinazione.    La sua figura è stata rivisitata da studi importanti che hanno tra l’altro condotto al recente catalogo generale (Electa, a cura di  Claudia Gian Ferrari)  e ad una mostra destinata ai suoi anni di prima maturità dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

Ora, nel momento in cui nasce l’Associazione Fausto Pirandello (AFP) promossa dagli eredi  Dora, Fausto e Silvio Pirandello,  si ordina questa mostra sul tempo della seconda guerra mondiale e sull’operosità densa di Pirandello in quegli anni; mostra intesa a promuoverne ulteriormente l’opera nella terra natale del padre Luigi  – la Sicilia, ed Agrigento in particolare -.

PERSONAGGI del VENTO: figure e ritratti nelle carte di Fausto PIRANDELLO

Testo di  Paola Bonani

 “Dirò che il punto d’arrivo di questi pastelli non è a tanto: e il perché è chiaro. Il perché è proprio nella loro natura estemporanea e indicativa; e in me stesso, che me ne servo nella mia ricerca per studio e per soggetto. Una successiva elaborazione avverrà dopo, nell’invenzione del quadro, nell’invenzione precisamente, delle forme compiute.

Non perciò credo che manchino d’interesse e, a loro modo, di piacevolezza e grazia. A un critico straniero che una volta li ha visti schierati sul muro del mio studio, sono parsi farfalle”[1].

Con queste parole Fausto Pirandello presenta un nutrito gruppo di opere su carta, da lui realizzate tra il 1928 e i primi anni Cinquanta, nel catalogo della mostra che si tenne alla Saletta degli Amici dell’Arte di Modena nel dicembre del 1952. “Per studio e per soggetto sono concepite queste opere, scrive l’artista, congiungendo il destino dei suoi piccoli fogli a quello dei dipinti, spazio dove le idee e le figure, prima succintamente fissate dalla mano sulla carta, trovano la loro ultima e definitiva formulazione.  Quest’indicazione dell’artista ci aiuta nel compito non semplice di ordinare il nucleo di carte presentato oggi in mostra e giunto a noi, come gran parte degli altri suoi disegni, senza date certe[2]. Sono parole che svelano inoltre come nel dialogo stretto tra le carte e i dipinti si dipani l’invenzione delle immagini e dei temi più cari all’artista. Come aveva osservato, già nel 1934, Roberto Melli, è nella “turbinosa grafia” dei disegni che “il mondo e le preferenze di Pirandello si scoprono eloquentemente e dove risaltano le radici, le possibilità, l’animo, la temperatura della sua arte, vero intimo vademecum del suo moto espressivo”[3].

Le due sanguigne di più antica data esposte oggi raffigurano entrambe un gruppo di tre uomini appoggiati a ridosso di un muro, intenti a vestirsi (o a spogliarsi) nella prima, in semplice attesa nella seconda [tavv.   ]. Queste due carte possono essere datate al 1935. I tre uomini richiamano alla memoria gli atleti raffigurati nel quadro della Palestra (1934) [fig. 1], colti qui forse un attimo prima o un attimo dopo il loro allenamento. Figure molto simili si possono anche riconoscere in un’altra carta realizzata dall’artista proprio nel 1935, volti di spalle e appoggiati a una staccionata [fig. 2]. Tutte immagini che esibiscono ancora quel senso di “straniata quiete”[4], di silenzio e di sospensione che caratterizza l’opera di Pirandello fino almeno al 1936, anno in cui comincia a farsi manifesto nei suoi lavori “un senso più dichiarato di dolore e di corruzione, che si traduce in una formulazione d’immagine di tipo espressionista”[5].

Il muro, inoltre, pur tracciato in maniera succinta alle loro spalle, situa questi corpi nudi in un ambiente, entro uno spazio in qualche modo ancora definibile, com’era ad esempio la stanza con l’alto muro colorato cui si appoggiavano il Padre e figlio (1934). Uno spazio che negli anni successivi si dissolverà lentamente, lasciando gli stessi corpi distesi nel vuoto della superficie della carta, in uno spazio privo di orizzonte, sprovvisto di qualsiasi punto utile di orientamento, senza più nessun elemento di appiglio da cui prendere le mosse per un qualunque tipo di racconto.

Intorno al 1935 è databile anche la matita raffigurante Due donne [tav.   Matita-1935-Due donne 50 che potrebbe considerarsi,  forse solo di poco, precedente alle sanguigne citate sopra.   Nei profili dei volti, nelle rotondità definite delle braccia, delle gambe e dei piedi, in qualche durezza  geometrica ancora presente nell’andamento dei panni che ricoprono i due corpi sembra riecheggiare ancora una lontana memoria delle solide forme delle donne picassiane della metà degli anni Venti, che Pirandello conobbe e ammirò durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1927 e il 1930.

 Molto separa invece queste due figure femminili da quelle di un’altra sanguigna di soggetto simile databile al 1937 [tav.   ]. “Tra la metà e la fine del decennio tanto muta, in Pirandello, e altrettanto permane”, ha scritto Guido Giuffrè. “Mutano i modi d’espressione di codesta verità, nel senso dell’abbandono progressivo della monumentalità statica, divenendo le campiture e gli impasti sempre più mossi”[6]. L’“aspetto teatrale”, l’“impianto scenico”, proprio di larga parte delle opere dei primi anni Trenta, quella rappresentazione del destino umano “chiuso in un perimetro precostituito e invalicabile, privo di passione come dell’illusione, ridotto alla recita inutile di un rituale cabalistico”[7], si smorza e progressivamente viene meno. Fino a condurre Pirandello figlio, rimasto solo dopo la morte del padre Luigi, verso quella “più fremente drammaticità che lo avrebbe portato all’immersione panica delle spiagge[8].

Nelle Due donne del 1937 [tav.   ] le vesti hanno perso l’andamento spigoloso delle precedenti, appaiono in alcuni punti graffiate, in altri sfumate, tanto da far perdere definizione al contorno dei corpi che ricoprono. Cieco e muto sembra il volto di una delle due figure, proteso verso l’orecchio dell’amica. Lì dove i due corpi cercano un punto di contatto s’accumula la materia bruna della sanguigna. Le forme, scriverà Renato Guttuso a proposito dei disegni di Pirandello, sono “imperniate, le une alle altre, attraverso macchie, sfilature, graffiature, in un aggregarsi di frammenti plastici, in segni calcati che poi allentano, sfrangiano e si sfanno, o si infoltiscono e aggrumano quasi a simulare una materia che non fosse quella del disegno o della pittura”[9].

La datazione di questa carta al 1937 è suggerita, inoltre, dal confronto con un altro disegno di Pirandello, tra i pochi datati dall’artista che si conoscano, intitolato La madre [fig. 3]. Quest’opera venne esposta nel 1938 alla prima mostra che Pirandello dedicò interamente ai suoi disegni, presso la Galleria della Cometa di Roma[10] [fig. 4]. Anche qui il segno si anima, si fa vibrante, trasferendo il suo afflato all’abbraccio tra la madre e i quattro figli, a quei gesti tanto semplici che mettono in amorosa relazione tra loro le cinque figure.

“Con la coscienza sotterranea e sicura dell’artista, – scrive Corrado Alvaro nel catalogo della mostra alla Cometa del 1938 – quello che egli aveva dapprima intuito come un punto d’appoggio di volumi e di colori, è divenuto gesto, è divenuto dramma, racconto; l’inanimato si è fatto creatura, gli elementi che nel linguaggio pittorico si ripetono fino alla sazietà (architetturali, spaziali, volumetrici, coloristici, eccetera, eccetera), si sono incarnati; un vento di creazione soffia nelle loro vesti, e attraverso i piani della pittura l’artista ha immesso il suo senso della vita, la solitudine, l’attesa, l’angoscia, la speranza, lo slancio in avanti”[11].

Sul finire del decennio gruppi di figure iniziano ad affollare i disegni e ancor più i dipinti. In alcuni casi si tratta di persone, soprattutto uomini, in pose e atteggiamenti tali di prostrazione che sembrano prefigurare e contenere tutta l’angoscia che porterà con sé la guerra ormai imminente. Uomini disperati,  con le mani giunte sulla testa,  Sanguigna-1939 -Uomini con lemani sulla testa 50 compaiono nel disegno databile al 1939 [tav.   ]: cinque figure simili a quelle che si agitano e accalcano nel Bozzetto inviato da Pirandello al Secondo Premio Bergamo nel 1940 [fig. 5]. Dialogano tra loro anche il Gruppo di figure [tav.   ] con la Composizione oggi in mostra, dipinta intorno al 1939 [tav.   ]. Gli Uomini distesi [tav.   ] e la grande carta con Uomini distesi a terra [tav.   ], dove i corpi sono disposti a formare una croce realmente inquietante, sono tutte opere riferibili allo stesso periodo, quando “la sanguigna insegue vortici di luce, incrudelisce zone d’ombra, indaga con meticolosa, ossessiva acribia le più allucinate distorsioni delle membra”[12].

Questo insieme di fogli di carta, di piccole dimensioni, scorrono allora davanti agli occhi come in una sistematica e ossessiva raccolta di gesti, di posizioni, di possibili incastri e composizioni, una sorta di lessico personale fatto di corpi e di figure che Pirandello accumula e colleziona, foglio dopo foglio, e da cui attinge per poi comporre le più complesse e affollate combinazioni dei quadri con Bagnanti e Spiagge.

Un sentimento più disperante sembra tuttavia scaturire dalle carte, dovuto da un lato alla più succinta concezione di queste opere, dove il numero minore di figure non lascia spazio al pur minimo conforto di un destino largamente condiviso, che spinge gli individui, come gli animali, a stringersi tra loro; dall’altro lato, desolante appare, come abbiamo già detto, la totale mancanza in questi fogli di un qualche orizzonte, se pur lontano, di quella porzione di cielo e di mare anche minima che si intravede quasi sempre sul fondo dei quadri [fig. 6]. Elementi che, come il leggero muro su cui si poggiavano le figure delle due prime sanguigne, ancorano questi corpi a un brandello di realtà, meno annichilente del vuoto assoluto.

“Mistero dei personaggi del ventoa far visita nel silenzio.  Sono da chi sa quanto nei paraggi  aggregati chi sa a qual cosa; rischiano di diventare stolidi,  di cresparsi nella calura.  Sulla soglia dubitano: per non ardire, calpicciano  mormorano, si rammemorano, mi si riscontrano: vorrebbero accoglienza”[13].

Figure di Uomini con le braccia alzate [tav.   ],  Sanguigna 1940-Uomini con le braccia alzate senzadasc. di imploranti o veneranti, si alternano sui fogli allo scadere del decennio, gli stessi che si ritrovano nei gruppi di figure assiepate sulla destra e sulla sinistra della grande tavola de L’impero (Trionfo di Augusto) del 1940, uno dei quattro bozzetti che Pirandello presenta al concorso per i mosaici per il  Palazzo dei ricevimenti e congressi dell’E42. Figure tutte che finiscono col farsi specchio di una drammatica condizione collettiva.

“Dov’è la ‘tematica, poetica, eroica, civile’?”, ci si chiede guardando queste opere che vennero allora commissionate per esaltare i fasti del regime fascista attraverso la memoria delle glorie dell’antico impero romano, “nella materia pittorica sfatta, nei corpi allungati e deformi, pasciniani e pre-giacomettiani? Nelle tematiche concepite come delirio allucinatorio, nel quale gli eventi e le cose, anziché come cumulo di rovine si presentano come incalzare di terribili eventi, che sappiamo separati dalle centinaia di anni e di millenni, che si congrumano in quei quattro metri quadrati di pittura?”[14].

Negli stessi anni, questa desolante consapevolezza d’una amara sorte, comune a tutti, sembra travalicare i confini della storia collettiva e insinuarsi in ogni aspetto della vita privata, finendo col riflettersi nei timidi e inermi sguardi del figlio Antonio, che Pirandello fissa a più riprese sulla carta tra il 1941 e il 1943 [tavv.   ]. Sanguigna 1941-AntonioCome i corpi nudi che si agitano nel vuoto, anche Antonio appare solo, incapace di sottrarsi allo sguardo del padre, di nascondersi, anche solo di indietreggiare timidamente di un passo per sentirsi un po’ più protetto dalla forte figura materna, come avveniva ne La famiglia [tav.   ]: “la forma brancola come nel vuoto, nel vuoto gestisce, si ferma, si stende”[15].

Enorme appare allora il divario tra questi ritratti dei primi anni Quaranta, fino all’Autoritratto all’acquarello del 1944 qui in mostra [tav.   ], e i primi ritratti e autoritratti noti dell’artista, databili intorno al 1921. Lì i volti incombevano minacciosi verso lo spettatore grazie a una costruzione dell’immagine attentamente studiata: ripresi da un punto di vista molto ravvicinato, quasi sempre di sbieco rispetto all’asse centrale del foglio, quei visi era illuminati da un chiaro scuro “da ribalta di teatro” che ne accentuava la drammaticità[16]. Sull’onda delle suggestioni simboliste, allora pienamente accolte dal giovane Pirandello, queste immagini esprimevano una forza e una determinazione legata alla piena fiducia e adesione a un linguaggio “altro” che si sta imparando a conoscere. Quando nei primi anni Quaranta, raggiunta la piena maturità, anche l’ultima suggestione esterna è superata, Pirandello riesce a “incarnare”, come ha scritto Alvaro, quella stessa sensazione allarmante e di straniata inquietudine dalla più fredda e controllata costruzione dell’immagine, dentro al corpo vivo delle sue figure: nel loro sguardo, che ci osserva ora fisso, terrorizzato o rassegnato, interrogante o sfuggente, e nell’imperfetto, baluginante, prostrato mostrarsi delle loro membra, come nei corpi della Donna distesa e dell’ultimo Nudo [tavv.   ].

Tra 1937 e i primi anni del decennio successivo, lo stesso radicale cambiamento che investe la rappresentazione della figura umana è percepibile anche nelle carte dove si presentano, sempre “appoggiati in ordine sparso su una precaria ribalta”[17], gli oggetti delle nature morte. Il segno ancora ordinato e nitido che evoca i pochi strumenti del mestiere nella Natura morta datata 1937 [tav.   ], si fa concitato e frenetico nella Natura morta con volpe e coltello, dei primi anni Quaranta [tav.   ].

È proprio in quel volger d’anni che Pirandello abbandona quindi ogni debito, tratto proficuamente negli anni della giovinezza prima dal simbolismo, poi da de Chirico e dal surrealismo, infine dal cubismo e da Cézanne, per giungere, al termine di una lunga rielaborazione degli elementi più significativi di queste ricerche, alla piena definizione del suo stile, che si rivela assolutamente unico nel panorama italiano di allora. Un traguardo che lo allontana definitivamente da molti dei suoi primi compagni di strada, come Giuseppe Capogrossi, Corrado Cagli, Renato Paresce, Mario Tozzi, Mario Mafai e molti altri.

Qualcosa fatalmente cambia, scrive lucidamente l’artista sempre nel catalogo del 1952, “quando t’avvedi a un punto di aver preso coscienza d’artista nel naufragare delle verità date. È uno sgomento che qualche volta porta ad atti disperati: porta, voglio dire, a quella specie di nichilismo intellettuale che ci fa ripudiare in blocco ogni ordine mentale – scopo vero dell’arte – e ci conduce all’euforia; a sospettare, cioè, di noi qualità divine e non propriamente indotte e patite dalla dura necessità di un’espressione che tenga strettissimo conto del risultato di questa nostra indagine; non più verso l’oggetto oramai indeterminabile, ma verso il nostro medesimo soggetto operante e determinato. (…). Luogo dove poi, infine, una forma può restare invariabile e differenziarsi; un colore prestarsi alla reminiscenza come all’invenzione, indifferentemente; un rosso equivalere a un turchino, il bianco al nero; una curva ad un piano, un punto a una linea. Luogo di perfetta indifferenza per ciò che sia forma o contenuto, di dove si muove l’interesse vero dell’arte”[18].


[1] F. Pirandello, I miei pastelli, in Fausto Pirandello alla Saletta, catalogo della mostra, Modena, Saletta degli Amici dell’Arte, dal 20 dicembre 1952, p.n.n.

[2] Il primo e più esaustivo lavoro di ordinamento delle opere su carta di Fausto Pirandello, la gran parte delle quali sono appunto senza data, è quello eseguito in occasione della mostra: Fausto Pirandello. Opere su carta 1921-1975, a cura di G. Appella, F. D’Amico (Roma, Palazzo Venezia, Sala Regia, 18 febbraio-23 marzo 1986; Milano, Padiglione d’Arte Contemporanea, 14 maggio-15 luglio 1986), De Luca Editore, Roma 1986. Questo lavoro di oggi prende le mosse dal catalogo della mostra del 1986, ancora oggi rimasta l’unica indagine specifica su questo tema,  a cui si è aggiunto un prezioso e costante confronto con Fabrizio D’Amico, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti per tutti i suoi suggerimenti e indicazioni. I disegni di Pirandello, oltre a essere solo raramente datati, sono tutti senza titolo. I titoli che compaiono in questo testo e nelle didascalie del presente catalogo, pur non indicati tra parentesi, sono stati attribuiti dai curatori della mostra.

[3] R. Melli, Visite ad artisti. Fausto Pirandello, in “Quadrivio”, Roma, 18 marzo 1934, p. 7.

[4] F. D’Amico, Formazione e prima maturità di Pirandello, in Fausto Pirandello. Opere su carta 1921-1975, cit., p. 15.

[5] Ibidem.

[6] G. Giuffrè, Fausto Pirandello, con un appendice di scritti inediti, Edizioni della Cometa, Roma 1984, p. 88.

[7] Ivi, p. 81

[8] Ivi, p. 83.

[9] R. Guttuso, Una mostra di Pirandello, in “Primato”, Roma, 15 marzo 1941, p. 18.

[10] Fausto Pirandello, catalogo della mostra, Roma, Galleria della Cometa, 19-31 gennaio 1938.  Il catalogo della mostra è privo dell’elenco delle opere. La madre, tuttavia, è pubblicata a illustrare una breve notizia dell’esposizione che compare sulla rivista “Augustea” di Roma, del 31 gennaio 1938.

[11] C. Alvaro, Disegni di Fausto Pirandello, in Fausto Pirandello, catalogo della mostra, Roma, Galleria della Cometa, 19-31 gennaio 1938, p.n.n.

[12] F. D’Amico, Formazione e prima maturità di Pirandello, cit. p. 15.

[13] F. Pirandello, Scritti inediti, in G. Giuffrè, Fausto Pirandello…, cit., p. 231.

[14] S. Lux, Oppo: la committenza, in E42. Utopia e scenario del regime, a cura di M. Calvesi, E. Guidoni, S. Lux, catalogo della mostra (Roma, Archivio centrale dello Stato, aprile – maggio 1987), Marsioni, Venezia 1987, vol. II, p. 216.

[15] R. Guttuso, Una mostra di Pirandello, cit.

[16] F. D’Amico, Formazione e prima maturità di Pirandello, cit. p. 9.

[17] M. Fagiolo dell’Arco, La pittura di Fausto Pirandello. Realismo magico, surrealismo, irrealtà, realismo, astratto concreto, in Fausto Pirandello. “La vita attuale e la favola eterna”, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 ottobre 1999 – 10 gennaio 2000), Edizioni Charta, Milano 1999, p. 26.

[18] F. Pirandello, I miei pastelli, cit., p.n.n.

INTRECCI  SICILIANI:  Fausto PIRANDELLO,  Telesio Interlandi,  Maria Accascina

Testo di  Flavia Matitti

 

 Telesio Interlandi  collezionista  di Fausto Pirandello[1]

 In una lettera scritta alla sorella Lietta nei primi giorni di gennaio del 1932 Fausto Pirandello riferisce con una certa soddisfazione: “Ho venduto un quadro ad Interlandi e un altro a Jesurum che mi ha fatto il cambio con ben 7.000 e tante di merce, tra cui una magnifica tovaglia a tombolo e merletto per 12 persone. Purtroppo dovrò svenderla per via dei soldi che mi occorrono”.[2] Da notare che 7.000 lire per un dipinto era allora una bella somma, specie se si considera che il pittore era poco più che trentenne e che in Italia aveva dato una prova importante di sé solo pochi mesi prima con la personale allestita alla Galleria di Roma nel maggio 1931. Meriterebbe perciò un’indagine approfondita la passione collezionistica della famiglia Jesurum, titolare dell’omonima ditta veneziana di merletti e ricami fondata nel 1870 da Michelangelo Jesurum,  premiata alle esposizioni internazionali e fornitrice ufficiale della Casa Reale. Ma quello che qui interessa è piuttosto la notizia dell’acquisto di un quadro da parte del giornalista siciliano Telesio Interlandi, allora direttore del quotidiano “Il Tevere” e amico di Luigi Pirandello.

La complessa, sfaccettata e per certi versi enigmatica vicenda intellettuale e umana di Interlandi, uno degli uomini più autorevoli e colti del regime, la cui memoria resta oggi unicamente legata alla direzione della sciagurata rivista “La difesa della razza”, organo ufficiale dell’antisemitismo fascista, ha destato negli anni l’interesse di due altri siciliani: Leonardo Sciascia e Giampiero Mughini. Entrambi, infatti, si sono interrogati sul perché un intellettuale raffinato, un figlio della Sicilia, terra tradizionalmente tollerante e accogliente, abbia abbracciato una causa così ignobile e assurda. Sciascia avrebbe voluto occuparsi dell’affaire Interlandi proprio per cercare una risposta, ma non ne ebbe il tempo, mentre Mughini ha indagato a fondo la personalità di  questo “siciliano freddo”, come lo ha definito nella bella biografia intitolata A via della Mercede c’era un razzista.[3] In questo contesto, però, importa soprattutto il legame di Interlandi con la famiglia Pirandello, un’amicizia tra siciliani profonda e duratura, in grado di trascendere gli avvenimenti politici e le umane disgrazie. Un’amicizia testimoniata anche dalla scelta del giornalista di collezionare, nel corso della sua vita, alcune opere di Fausto tra cui il capolavoro La tempesta (1938), un dipinto inquietante e presago della violenta bufera che stava per abbattersi sull’Europa.

Un dipinto di Pirandello, come si è visto, Interlandi lo aveva acquistato già nel 1931, probabilmente in seguito all’interesse suscitato dalla personale tenuta dal pittore presso la Galleria di Roma, diretta dal giornalista, critico d’arte e gallerista Pier Maria Bardi. Il soggetto del dipinto non è specificato, tuttavia lo si può desumere da un articolo di Roberto Melli apparso il 18 marzo 1934 su “Quadrivio”, il settimanale di letteratura fondato l’anno prima e diretto dallo stesso Interlandi. Melli, pittore, scultore e critico d’arte ebreo, che su “Quadrivio” aveva una rubrica dal titolo “Visite ad Artisti”, nel lungo articolo illustrato dedicato a Pirandello elenca anche i nomi dei collezionisti delle sue opere.[4] Sappiamo così che Interlandi era proprietario di un Paesaggio e di un disegno e vale la pena notare, per inciso, che anche l’ing. Jesurum possedeva un Paesaggio. Purtroppo al momento non vi sono elementi sufficienti a identificare il Paesaggio e il disegno ricordati da Melli in collezione Interlandi. Il titolo Paesaggio nel 1931 potrebbe infatti designare sia uno dei paesaggi eseguiti in Francia sia uno dei quadri raffiguranti tetti e monti di Roma, un soggetto che Pirandello inizia a dipingere al suo ritorno da Parigi, quando va ad abitare con la famiglia nel palazzo umbertino di via Augusto Valenziani 5, dove allestisce lo studio all’ultimo piano, sulla terrazza condominiale.

Mughini scrive che nel 1943 nel salotto del villino Interlandi, in via Santa Melania 20, all’Aventino: “(…) sfolgoravano i colori ghiacci e forti dei tetti romani di uno stupendo quadro del Fausto Pirandello dei tardi anni Trenta”.[5]  Questo quadro potrebbe essere in realtà il Paesaggio del 1931? Certo è che nel dopoguerra Interlandi possedeva un’opera dal titolo Tetti di Roma, che nel 1951 viene esposta in Palazzo Barberini nella grande mostra antologica dedicata a Fausto Pirandello dalla Fondazione Premi Roma per le Arti. Ma si tratta di un’opera acquistata da Interlandi nel dopoguerra, magari in sostituzione del Paesaggio già in suo possesso, o è sempre lo stesso quadro? A questo proposito occorre tenere presente che durante la guerra il villino all’Aventino era stato saccheggiato e le opere d’arte disperse, anche se qualcuna sarà poi recuperata. Al momento, comunque, non si può che lasciare aperta la questione.[6]  

La rivista “Quadrivio” sulla quale più tardi, in pieno conflitto bellico, lo stesso Fausto terrà una rubrica intitolata “Quaderno”, torna a occuparsi del pittore nel febbraio 1937, circa due mesi dopo la scomparsa di Luigi Pirandello. Questa volta ad andarlo a trovare è Luigi Diemoz, che nonostante l’adesione al partito comunista, ben nota a Interlandi, è uno dei redattori della rivista. Esce così una delle rare interviste all’artista.[7] Lo stesso anno Interlandi fa da padrino al battesimo di Antonio, il figlio secondogenito di Fausto Pirandello.

Nel 1939 Fausto ha quarant’anni ed è presente per la seconda volta alla Quadriennale di Roma con una sala personale, Interlandi ne ha quarantacinque ed è ormai divenuto uno dei giornalisti più influenti del regime. In occasione della mostra Interlandi presta al pittore, affinché lo possa esporre, un dipinto di sua proprietà dal titolo Il foglio azzurro (non identificato) e acquista in mostra l’opera “I ranocchi, presentata da Pirandello fuori catalogo. 

I ranocchi, 1938, intero -rid. vera 40                                                      ” I ranocchi“,  1938,  -intero-  

  Nel registro delle spedizioni relativo alla Terza Quadriennale si legge infatti a proposito de Il foglio azzurro: “rimessa al prof. Telesio Interlandi, perché di sua proprietà come da dichiarazione scritta del prof. Fausto Pirandello il 3 agosto 1939” mentre accanto a I ranocchi figura la nota seguente: “acquistata dal Prof. Telesio Interlandi e rimessa all’acquirente stesso il 3 agosto 1939”. Nella rubrica delle opere vendute il quadro, pagato 3.000 lire, è indicato con il titolo  “I tre rospi”.[8]

Il 26 luglio 1943 Interlandi viene arrestato a Roma e rinchiuso a Forte Boccea. Liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943, viene portato in salvo con la famiglia a Desenzano sul Garda, a diciotto chilometri da Salò, capitale del nuovo governo di Mussolini. Intanto il 4 giugno 1944 gli americani entrano a Roma. Il villino Interlandi all’Aventino viene prima requisito da una brigata del Movimento cattolico comunista (la formazione politica capeggiata da Adriano Ossicini) poi occupato dal comando inglese, che vi stabilisce la redazione del giornale delle forze armate britanniche in Italia.[9] Durante questi mesi travagliati dalla casa sparisce quasi tutto: la vastissima biblioteca, i mobili, l’argenteria e le opere d’arte.[10]   “I ranocchi, dipinto su tavola, viene tagliato in due dai soldati inglesi e la parte inferiore utilizzata per chiudere una finestra i cui vetri erano andati in frantumi. Solo la metà superiore del quadro è sopravvissuta. I ranocchi 1938- Un particolare                                                                                                                                                                          

I ranocchi, 1938, segato,25

I ranocchi”,  1938,  -segato-                                           “I ranocchi”,  -particolare-

Ma come si diceva Telesio Interlandi possedeva anche un altro straordinario dipinto esposto da Pirandello alla Terza Quadriennale,  La tempesta, presentato poi nell’autunno del 1939 al Carnegie Institute di Pittsburgh. “E’ un quadro – osserva Mughini – che [Interlandi] ha voluto acquistare a tutti i costi nel dopoguerra, appena gli sono tornati un po’ di soldi in mano, e che gli deve apparire particolarmente evocativo del suo destino di siciliano sconfitto: vi è raffigurato un gruppo di donne e bambini, presi di spalle e come squassati dalla tempesta che sta soffiando su di loro furiosa al punto di rovesciare le vesti delle donne sulle loro teste, a nasconderne l’identità”.[11]

Quando, finita la guerra, gli Interlandi fanno ritorno a Roma nel luglio 1946, un sequestro conservativo finalizzato alla confisca li aveva privati di ogni bene, ma tra gli amici pronti ad aiutarli ci sono ancora Fausto Pirandello e sua moglie Pompilia. Il pittore mette a disposizione degli Interlandi la propria casa e lascia su un tavolo due blocchetti di assegni, tutti firmati, affinché se ne possano servire liberamente.[12]

 

Un testo dimenticato di Fausto Pirandello sull’arte in Sicilia

Il 15 novembre 1939, quando la guerra in Europa è ormai scoppiata, esce sulla rivista romana “Augustea” un articolo intitolato Arte d’oggi nel quale Fausto Pirandello fa alcune interessanti riflessioni sullo stato dell’arte contemporanea in Sicilia.[13] La collaborazione del pittore con “Augustea”, quindicinale di politica, economia e arte fondato e diretto dal giornalista e uomo politico Franco Ciarlantini, è del tutto occasionale e per questo in seguito l’articolo è stato dimenticato.[14] Ma se si presta attenzione al contesto nel quale è apparso – un numero speciale dedicato alla “Sicilia d’oggi” – l’intervento critico di Pirandello, apparentemente marginale rispetto agli altri suoi più noti,  acquista significato e importanza. Sullo stesso numero, infatti, nelle pagine immediatamente precedenti compare uno scritto di Maria Accascina, brillante storica dell’arte e paladina dei tesori artistici della Sicilia, che da anni tenta di riscattare dal degrado e far conoscere al resto d’Italia.[15] Coetanea di Fausto Pirandello e allieva di Adolfo Venturi, Accascina affianca all’attività di giornalista d’arte svolta prima per il quotidiano palermitano “L’Ora” e poi per il “Giornale di Sicilia”, quella di ispettore delle Belle arti e di studiosa.[16] Proprio nel 1939 pubblica presso l’editore romano Palombi il volume intitolato Ottocento Siciliano. Pittura, nel quale insiste sui rapporti tra l’arte siciliana e quella delle altre regioni d’Italia per correggere quello che ritiene un diffuso, quanto superficiale, pregiudizio critico che vuole la Sicilia staccata dai movimenti artistici e culturali italiani.

Si può quindi immaginare che la rivista “Augustea” si sia rivolta a Pirandello, riconosciuto come uno degli artisti più importanti nel panorama italiano e da molti considerato un pittore intimamente siciliano pur essendo nato a Roma, per un commento da pubblicare in relazione con quanto Accascina andava sostenendo da tempo a proposito della italianità dell’arte siciliana. Da notare che la stessa Accascina considerava Fausto Pirandello un artista siciliano.[17] Nelle sue appassionate recensioni alle biennali di Venezia e alle quadriennali di Roma il nome di Pirandello compare spesso; per la prima volta ne scrive a proposito della XIX Biennale di Venezia del 1934, trovandolo “artista interessantissimo e da segnalare appena passeranno alcune stranezze inesplicabili”.[18]  In seguito non perderà occasione per invitare la Galleria d’arte moderna di Palermo ad acquistare un suo quadro, cosa che effettivamente avverrà nel 1938 con l’acquisto per 1.000 lire del Mosé salvato (1931) esposto alla mostra Sessanta artisti italiani allestita dalla marchesa De Seta in Palazzo De Seta a Palermo.[19]

 Alla rivista “Augustea” Pirandello fornisce anche due bei disegni. Bambini che giocano (1936) viene pubblicato a corredo dell’articolo di Maria Accascina, mentre l’altro disegno, raffigurante quattro bagnanti (finora ignoto a quanto ci risulta), illustra il testo del pittore. Siccome l’intervento critico di Pirandello non è mai stato ripubblicato lo si trascrive qui  integralmente. La posizione del pittore appare sostanzialmente in sintonia con quella di Accascina nel ritenere che di una scuola siciliana non si possa parlare, ma la questione gli  appare superata nella comune tensione verso un’arte nazionale.

 

ARTE D’OGGI. Quel complesso di circostanze, di relazioni, d’intese, quel modo di convogliare e d’indirizzare ricerche estetiche e stilistiche che nel loro insieme e per lunghissima ininterrotta tradizione formano le peculiarità ed una fisionomia collettiva, che passano sotto il nome di scuola e che, se assumono forma dalla individualità dei singoli artisti, li accomunano anche in un’intesa di modi, di espressioni e d’indirizzi, non può dirsi che gli artisti siciliani abbiano mai trovato. Un artista milanese, ad esempio, o toscano o veneto, nasceva nella sua scuola ed in essa operava sicuro che questa scuola di per sé, era “un” carattere  dell’arte nazionale.

Invece, se è verosimile che gli artisti siciliani contemporanei avrebbero in poco tempo trovato un ambiente capace di contenerli e di comprenderli, è molto probabile che quelli dell’ottocento, per tutto l’ottocento, siano singolarmente rientrati a far parte di varie scuole regionali; né sarebbe da meravigliarsene, se si pensa che a Napoli, ad esempio, si raccolse il principio unitario di una tendenza che si è risolta anche con l’apporto, ad essa preziosissimo, di artisti pugliesi e abruzzesi che furono tra i migliori del tempo.

Ora non è qui il caso di rientrare in merito alle controversie delle ormai notissime questioni dell’arte contemporanea. Ma è certo tuttavia che le salutari ripercussioni delle infinite polemiche e dei “massacri” inferti ad un gusto che ancor oggi tarda a morire – per un inutile illustrazionismo veristico o retorico di categoria elementare – per la cosa contro lo spirito della cosa – abbiano portato ad uno spostamento dell’indirizzo di ricerca sulle ragioni dell’arte. Ricerca che verte oggi verso forme la cui portata non è forse possibile rigorosamente valutare, ma che certo intende ad una ricognizione  in senso universalistico degli aspetti del nostro mondo visibile. Da un simile atteggiamento è augurabile attendersi un’arte a carattere nazionale, quale già si scopre, nella quale gli artisti siciliani verranno a trovarsi, come già sembrano, “in ambiente” per definizione.

Né a convalidare l’argomento mancano esempi nei limiti della generazione di cui si discorre: mentre gallerie private sono aperte a Catania e a Palermo con programmi di attività ben definiti a fianco delle Istituzioni artistiche sindacali, artisti come Francesco Messina, Giarrizzo, M.M. Lazzaro, Pippo Rizzo, Trombadori, Leo Castro, Guttuso, Franchina, Lia Pasqualina Noto, Ortona, Bevilacqua, Comes, Barbera, De Lisi, Alliata e anche molti altri, che non fanno ragione d’arte “l’abitudine” derivante dall’esser nati in Sicilia, operano, secondo le loro singole possibilità, con gli artisti di tutta Italia, in questo movimento di ricerca di un’arte nazionale.[20]

 

Note


[1] Il paragrafo è una sintesi, ma con alcune aggiunte, di un saggio apparso nel 2010, quando potei avvalermi della preziosa testimonianza del figlio di Telesio Interlandi, Cesare, recentemente scomparso e al quale rivolgo un sentito ricordo. Cfr. F. Matitti, Telesio Interlandi collezionista di Fausto Pirandello e tre scritti del pittore apparsi sulla rivista “Quadrivio”, in Fausto Pirandello alle Quadriennali del 1935 e 1939, catalogo della mostra a cura di C. Gian Ferrari, Electa, Milano 2010, pp. 22-31.  

[2] La lettera è pubblicata in Fausto Pirandello. Autoritratti e disegni degli anni Trenta, catalogo della mostra a cura di F. D’Amico, Conti Serristori 1985, s.n.p.

[3] Telesio Interlandi (Chiaramonte Gulfi/RG 1894 – Roma 1965), cfr.  G. Mughini, A via della Mercede c’era un razzista, Rizzoli, Milano 1991, p. 13; E. Pouech, Telesio Interlandi, un intellectuel fasciste antisémite (1894-1965), tesi discussa l’8 dicembre 2001, relatore M. Rouch, presso l’Université M. de Montaigne, Bordeaux III (http://hal.archives-ouvertes.fr); M. Canali, Telesio Interlandi, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Roma 2004, vol. 62, pp. 519-521.

[4] R. Melli, Fausto Pirandello, in “Quadrivio”, Roma, 18 marzo 1934, pp. 7-8. L’unico paesaggio riprodotto nell’articolo vi appare con il titolo Tetti e case di Roma. La stessa opera, ma con il titolo Tetti e monti di Roma, era stata pubblicata su “Emporium” nel 1932 in relazione alla Terza Sindacale del Lazio, dove era esposta con questo titolo. Da notare però che già nella personale alla Galleria di Roma del 1931 c’era un quadro, molto apprezzato, intitolato Tetti e monti di Roma. Si sarebbe tentati di credere, per il risalto che gli viene dato sulla stampa, che sia questo il paesaggio appartenuto a Interlandi, ma la questione è più complessa, come si vedrà più avanti alla nota 6.  Cfr. R. Pacini, Cronache romane. La terza mostra del Sindacato laziale di Belle Arti, in “Emporium”, Bergamo, vol. LXXV, n. 448, aprile 1932, ripr. p. 248; F. Matitti, Regesto 1925-1944. Appendice, in Fausto Pirandello, catalogo della mostra a cura di M. Fagiolo dell’Arco, C. Gian Ferrari, Charta, Milano 1999, pp. 48-51, 91-97. C. Gian Ferrari, Fausto Pirandello. Catalogo generale, Electa, Milano 2009, p. 102, n. 74 (Tramonti di Roma).

[5] Mughini, cit., p. 13.

[6] L’inedito quadro Tetti di Roma appartenuto a Interlandi, che qui pubblichiamo, oggi in collezione privata, è un olio su tavola, 47,8×63,7 cm, firmato in basso a destra “Pirandello”. Nel retro un’iscrizione a penna sulla tavola (scritta da Interlandi?) ricorda che l’opera è stata esposta in Palazzo Barberini nel 1951. Cfr. Fausto Pirandello, catalogo della mostra con presentazione di F. Bellonzi, Roma 1951, p. 11, n. 21: “Tetti di Roma (1946). Collezione Inte. [sic]”. Nonostante l’indicazione “1946” si preferisce lasciare imprecisata la data del quadro perché la datazione dei dipinti di Pirandello raffiguranti Tetti di Roma è molto problematica e al momento è in corso di studio una loro nuova sistemazione cronologica. Nel retro del quadro figura anche scritto a penna, ma poi corretto da un segno di cancellatura, il titolo Paesaggio.  Inoltre c’è un cartellino d’epoca, strappato, sul quale si legge ancora “Via Vittorio Veneto 83”. L’opera quindi è stata esposta in una delle mostre organizzate dalla Galleria del Secolo, attiva dal 1944 al 1950 in via Vittorio Veneto 83-87 (la Galleria di Roma si trovava invece in Via Vittorio Veneto 7).

[7] L.D. [Luigi Diemoz], Propositi di Artisti. Nello studio di Fausto Pirandello, in “Quadrivio”, Roma, 7 febbraio 1937, p. 6, ora in Matitti, cit., 1999, pp. 98-99. 

[8] Archivio Biblioteca Quadriennale di Roma: Registro delle Spedizioni, 1939, nn. 3119 e 3128; Rubrica delle opere vendute, 1939.

[9] Mughini, cit., p. 211-213.

[10] Oltre ai quadri di Pirandello tra le opere disperse o danneggiate figuravano un dipinto di Francesco Trombadori, una scultura di Francesco Messina e un ritratto di Cesare Interlandi bambino dipinto da Massimo Campigli.

[11] Mughini, cit., p. 215. Il dipinto si conserva in collezione privata.

[12] Mughini, cit., p. 211.

[13] F. Pirandello, Arte d’oggi, in “Augustea”, Roma, a. XV, n. 1, 15 novembre 1939, p. 15 (ripr. un disegno di Pirandello, senza titolo, raffigurante quattro bagnanti).

[14] Su Francesco (Franco) Ciarlantini (1885-1940) cfr. E. Lecco, F. Ciarlantini, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1986, pp. 214-216.

[15] M. Accascina, Arte siciliana, in “Augustea”, Roma, a. XV, n. 1, 15 novembre 1939, pp. 13-14 (p. 14 ripr. un disegno di Pirandello, senza titolo, poi in  Fausto Pirandello (1899-1975), catalogo della mostra a cura di B. Mantura, De Luca, Roma 1976, n. 21, Bambini che giocano, 1936).

[16] Maria Accascina (1898-1979), storica dell’arte, critica e giornalista nata a Napoli ma siciliana di adozione, dedica tutta la vita a studiare, valorizzare e tutelare il patrimonio artistico della Sicilia, cfr. M.C. Di Natale (a cura di), Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1934-1937,  Sciascia, Caltanissetta 2006; Id., Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1938-1942, Sciascia, Caltanissetta 2007; Id., Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di M.Accascina, Sciascia, Caltanissetta 2007; G. De Marco, “L’Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930), Silvana, Cinisello Balsamo 2007, pp. 66-68.  

[17] Su Pirandello artista siciliano vedi per esempio: Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1934-1937, cit., 2006, pp. 126, 138, 231.

[18] M. Accascina, La pittura moderna alla XIX Biennale Veneziana, in “Giornale di Sicilia”, 13 maggio 1934, ora in  Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1934-1937, cit., 2006, p. 52.

[19] Cfr. in particolare M. Accascina, In tema di mostre, in “Giornale di Sicilia”, 10 gennaio 1936, ora in Maria Accascina e il Giornale di Sicilia 1934-1937, cit., 2006, p. 231. F. Mazzocca, G. Barbera, A. Purpura (a cura di), Galleria d’Arte Moderna di Palermo. Catalogo delle opere, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007, p. 367; C. Gian Ferrari, cit., 2009, p. 99, n. 55.

[20] Le gallerie private cui allude Pirandello sono, con ogni probabilità, la Galleria Arbiter a Catania e la Galleria Mediterranea a Palermo; in quest’ultima Pirandello aveva esposto nella mostra Sessanta artisti italiani (29 dicembre 1937-29 gennaio 1938). Gli artisti citati, assai distanti tra loro per poetica, stile e fortuna critica, sono: gli scultori Benedetto De Lisi jr (Palermo, 1898-1967) e Francesco Messina (Linguaglossa/CT 1900-Milano 1995); i futuristi Pippo Rizzo (Corleone/PA 1897-Palermo 1964) e Manlio Giarrizzo (Palermo 1896-Firenze 1957), quest’ultimo poi partecipe del clima di “Novecento” così come  Leo Castro (Corleone/PA 1885-Palermo 1970),  Alberto Bevilacqua (Palermo 1896-Roma 1979) e Carmelo Comes (Catania, 1905-1988); l’esponente della Scuola Romana Francesco Trombadori (Siracusa 1886-Roma 1961); l’incisore Ugo Ortona (Borgia/CZ 1889- Roma 1977) allievo di Cambellotti a Roma; Mimì Maria Lazzaro (Catania, 1905-1968) a Roma vicino alla Scuola di Via Cavour e infine tra i giovani il Gruppo dei Quattro di Palermo, cioè Renato Guttuso (Bagheria/PA 1911-Roma 1987), Nino Franchina (Palmanova/UD 1912-Roma 1987), Giovanni Barbera (Palermo, 1909-1935) e Lia Pasqualina Noto (Palermo, 1909-1998), con Topazia Alliata Maraini (Palermo, 1913). Cfr. G. Barbera (a cura di), Le esposizioni sindacali in Sicilia (1928-1935),  Di Nicolò, Messina 2002; G. Barbera (a cura di), Le esposizioni sindacali in Sicilia (1936-1942),  Di Nicolò, Messina 2003.

ALLEGATI:
Dettagli Mostra in PDF.

Categorie: Eventi trascorsi,News